I NUMERI NON MENTONO MAI, MA…

Negli ultimi decenni si è assistito ad un crescente impiego delle statistiche negli ambiti più disparati e per i fini più vari; statistiche sempre più facilmente sviluppabili ed accessibili grazie allo sviluppo di internet che ha reso disponibili informazioni quantitative immediatamente utilizzabili, e ai pc e ai software sempre più potenti che hanno portato ad un uso più generalizzato di vecchie e nuove metodologie di analisi. 

I dati statistici permettono di descrivere un certo tipo di fenomeno (naturale, sociale, economico, etc.) e di rappresentare la realtà con una buona approssimazione. Quando si impiega un metodo statistico questo processo avviene attraverso quattro fasi canoniche: la rilevazione, l’elaborazione, la presentazione e l’interpretazione dei dati. Ma se da un lato possiamo dare per certo che i numeri di per sé non mentano mai, dall’altro, le fasi di elaborazione e di interpretazione stanno a chi compie queste azioni, e quindi potrebbe sorgere qualche interrogativo. Infatti, i dati statistici possono prestarsi ad interpretazioni più o meno varie e possono dar luogo ad una conseguente distorsione della realtà rilevata legata a sensazioni o interessi personali.

“Un giorno, per essere un buon cittadino, il ragionamento statistico sarà necessario quanto saper leggere e scrivere.” QH. G. Wells

I dati non mentono, ma il problema potrebbe essere legato a quali domande facciamo loro. “Lies, damned lies, and statistics”, in italiano “Le bugie, le maledette bugie, e le statistiche”: il modo di dire deriva dalla frase resa popolare negli Stati Uniti da Mark Twain (sì proprio lui, lo scrittore, tra le altre opere, di Le avventure di Tom Sawyer). La frase è contenuta anche in un libro del 1954 dal titolo “How to Lie with Statistics”, ovvero “Come mentire con le statistiche” che ne riporta però anche un’altra, meno famosa, ma non meno significativa, di H. G. Wells che recita “Un giorno, per essere un buon cittadino, il ragionamento statistico sarà necessario quanto saper leggere e scrivere.” Il vero problema è rappresentato da tutti quei dati che non necessariamente recepiamo in modo corretto perché siamo alla mercé di chi ci “racconta la storia”. Il che ci porta al nocciolo della questione, ovvero quando si tratta di comunicare dei dati, chi ascolta ha la stessa responsabilità di chi presenta. Umberto Eco è stato il teorizzatore del “patto narrativo” tra autore e lettore.

Quando si presentano dei dati occorre sempre distinguere cosa questi ci dicono (ad esempio, le ore lavorate in un mese) e quale interpretazione ne diamo (abbiamo lavorato tanto, oppure il mese aveva 3 weekend invece di 4 e quindi non c’è proprio nulla da dover interpretare?). Nel caso dei dati, affinché la spiegazione che li accompagna sia il quanto più possibile rappresentativa della verità, è necessario che il “produttore” conosca a fondo il fenomeno che sta descrivendo e i metodi per rappresentarlo con il massimo rigore possibile. Il lettore, invece, dovrebbe avere un insieme minimo di conoscenze per capire il significato di ciò che sta leggendo o recependo e metterlo in dubbio, se necessario.

Accade spesso che, tra le tante interpretazioni associate ai dati, non prevalga quella più vicina alla verità ma quella più verosimile. I social media, i notiziari e gli articoli sono pieni di esempi di questo tipo. Proprio per questo c’è chi suggerisce che l’interpretazione di qualsiasi fenomeno attraverso i dati dovrebbe essere introdotta da una frase del tipo “Con i dati si può mentire: leggere con cautela, pensare, ragionare e dubitare. Sempre”.

Alessia Melasecche
alessia.melasecche@libero.it

 

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