CASO GIULIO REGENI UNA FERITA APERTA

Il giorno 17 marzo la Premier italiana Giorgia Meloni insieme alla presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen si è recata al Cairo per incontrare il presidente egiziano Al Sisi al fine di trovare una costruttiva soluzione dell’ormai cronico problema dei migranti che da anni si riversano a migliaia sulle coste del nostro paese, il tutto naturalmente con significativo esborso da parte della UE di svariati miliardi.

Una data storica vista l’urgenza del problema che, oltre ad aver trasformato il Mediterraneo in un cimitero per le migliaia di vittime, mette in seria difficoltà i paesi dell’Ue che se ne devono far carico. Nell’incontro del Cairo si è parlato non solo di emigrazione, ma sono stati affrontati problemi riguardanti l’intera area mediorientale a causa del sanguinoso conflitto Israele -Hamas che minaccia la stabilità politicomilitare dell’intera zona coinvolgendo direttamente diversi stati con conseguenze imprevedibili.

Forse per una coincidenza casuale il giorno successivo, il 18 marzo, si teneva in corte d’assise a Roma la seconda udienza del processo a carico di quattro agenti dei servizi segreti dell’Egitto responsabili del sequestro, tortura e omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni.

A questo punto è bene fare un passo indietro precisamente al 2016 e riassumere per sommi capi la vicenda, allo scopo di ricordare ai lettori i punti salienti di un travagliato iter durato otto anni e ben lungi da essere terminato. Giulio Regeni si trovava al Cairo per svolgere una ricerca sui sindacati indipendenti in Egitto per conto dell’Università di Cambridge e aveva inviato diversi articoli sulla grave situazione dei diritti civili in quel paese. Il 26 01.2016 scompare. Il corpo venne ritrovato alla periferia del Cairo il 03.02.2016 con evidentissimi segni di terribili torture, al punto che la madre lo riconobbe dal naso.

Da questo momento iniziò un vero e proprio calvario fatto di sfacciate menzogne, depistaggi e notizie prive di qualsiasi fondamento. Lo stato egiziano fin da subito dichiarò piena collaborazione al fine di far luce sulla vicenda e scoprire i responsabili dell’omicidio, ma in realtà essa fu smentita dai fatti.

I magistrati italiani hanno dovuto procedere da soli senza ricevere alcun valido e serio aiuto dai colleghi egiziani. Tuttavia i colpevoli sono stati individuati e iscritti nel registro degli indagati sin dal 2018 nelle persone degli ufficiali Tariq Sabir, Atha Kamel, Usham Helmi e Magdi Sharif.

Il presidente Al Sisi a tutti i premier italiani che durante questo lasso di tempo si recavano in visita in Egitto ripeteva il solito mantra della piena collaborazione, ma solo a parole.
Nei fatti non ha mai fornito ai magistrati italiani gli indirizzi dei presunti colpevoli, bloccando così la possibilità di istituire un processo. Processo che si è potuto cominciare dopo otto anni soltanto grazie all’intervento della Corte Costituzionale. L’Egitto non fornendo il domicilio degli imputati e di conseguenza impedendo la notifica degli atti che avvisavano dell’udienza, ha bloccato il dibattimento che si è potuto tenere perché la Consulta ha stabilito che fare il gioco di uno stato che si sottrae volontariamente a un processo per difendere cittadini imputati per reati così gravi, sia anticostituzionale.

Un primo grasso scoglio è stato superato, ma ora perché il processo si possa tenere in modo equo bisognerà che i testimoni vengano a ripetere in aula quello che hanno precedentemente dichiarato in fase istruttoria. Cinque testimoni, indicati per motivi di sicurezza con lettere dell’alfabeto greco, hanno diversa nazionalità, diversa estrazione sociale, diverse attività lavorative. Alcuni di loro risiedono in Egitto. Viene quindi spontaneo chiedersi: visti i precedenti, il governo di Al Sisi consentirà loro di essere interrogati dai pm, dai difensori di parte civile nel processo di Roma? Considerato quanto accaduto in questi anni sembra molto difficile. Ragione per cui il destino di questo processo è pieno di incognite.

Non si può far a meno di ricordare per analogia, sia pure con le dovute differenze, l’uccisione della giornalista Ilaria Alpi in Somalia in circostanze e responsabilità tutte da chiarire e l’arresto senza validi motivi del ricercatore egiziano Patrick Zaki studente dell’Universtà di Bologna. La solita dinamica: arresto, carcere, poi un processo rinviato in modo spudorato e provocatorio per due anni, stavolta lieto fine: la liberazione.

La situazione di crisi internazionale che si è verificata dopo l’attacco terroristico di Hamas e il conseguente intervento israeliano nella Striscia di Gaza, ha visto crescere l’importanza strategico-diplomatica dell’Egitto quale partner mediatore indispensabile per risolvere un conflitto che potrebbe innescare una pericolosa escalation dalle conseguenze catastrofiche, per cui il caso Regeni rischia di rimanere in secondo piano.
Amara lezione machiavellica della ragion di stato!

Se il mantra del governo Al Sisi è stato “la piena collaborazione”, quello dei politici italiani è stato: “ Il caso Regeni è in cima alla nostra agenda. Noi vogliamo andare avanti nella ricerca della verità e della giustizia.” Stavolta dopo l’incontro del 17marzo il mantra non si è ripetuto: SILENZIO ASSORDANTE!!
Verità e Giustizia per Giulio Regeni!

Pierluigi Seri

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