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SUL TRENO della TRANSIZIONE ECOLOGICA VAGONE O LOCOMOTIVA?

“Vediamo segnali allarmanti di cambiamento climatico. Vediamo sintomi gravi come la siccità, che porta gravi conseguenze”.  

Sono state queste le importanti considerazioni fatte recentemente dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La stessa Costituzione è stata aperta, con la modifica degli articoli 9 e 41, al riconoscimento di un nuovo diritto civile: un ambiente sostenibile, nel tempo. Si è, così, introdotto un principio altamente innovativo di giustizia intergenerazionale: tutelare, oggi, la “casa comune”, per consegnarla, vivibile, alle prossime generazioni.

Dunque, non mancano le sensibilità e le volontà politiche, ai più alti livelli istituzionali e sono disponibili nuove basi giuridiche per aprire, anche nel nostro paese, la fase di transizione verso la sostenibilità dello sviluppo, negli aspetti ambientali e climatici, economici e di coesione sociale.  

Tuttavia, se guardiamo alla reazione negativa dei nostri governanti attuali e di molta stampa conservatrice alle concrete misure, proposte dall’Unione europea, per ridurre le emissioni climalteranti di auto e abitazioni, comprendiamo quanto grandi sono e saranno le resistenze verso questo cambiamento, pur indispensabile e senza alternative. A parole, tutti si dicono favorevoli alla transizione ecologica dell’economia, ma, nei fatti, sul punto chiave della velocità e coerenza del percorso da compiere e delle scelte concrete da adottare le incertezze si fanno prevalenti e più forte si fa il peso degli interessi colpiti dal mutamento necessario. Eppure, la siccità, mai registrata prima, sui due fiumi italiani più grandi, Po e Tevere e l’inaridimemto progressivo di vaste aree agricole del paese, ci ricordano che siamo già dentro l’emergenza climatica e che è urgentissimo intervenire; sia per contenere e ridurre le cause del disastro incombente, sia per provare ad adattarci meglio agli squilibri che, comunque, si determineranno. 

Abbiamo avuto Ministri della transizione ecologica che la rappresentavano come un sicuro “ bagno di sangue” economico, mostrando tutta l’incapacità di coglierne le potenzialità di nuova fonte di opportunità di sviluppo e crescita virtuosa: per l’ambiente, per le imprese innovative, per il lavoro qualificato e stabile, per le città che possono tornare ad essere vivibili. 

Naturalmente, l’Italia, pur dovendo fare fino in fondo la sua parte, non può affrontare da sola una sfida come il contrasto al cambiamento climatico e il cambiamento dell’attuale modello di sviluppo verso uno diverso e sostenibile. Siamo dentro l’economia europea e siamo dentro l’economia globale; tuttavia, dovremmo essere, pur dentro questi contesti internazionali condizionanti, alla testa del processo di cambiamento e non alla coda, da frenatori, come sta accadendo in questi ultimi tempi, sui temi del superamento dei motori termici, al 2035, e sull’adeguamento energetico-climatico del patrimonio edilizio. 

In altre aree geopolitiche ed economiche del mondo i cambiamenti di modello sono in atto, proprio per coglierne le opportunità, come molla per un nuovo sviluppo. Negli Stati Uniti, il governo Biden ha adottato un grande programma per la transizione verde dotato di 370 miliardi di dollari. Gli incentivi pubblici agli investimenti sono così generosi che un grande gruppo automobilistico europeo, come  Wolkswagen, ha deciso di costruire negli USA una grande fabbrica per produrre batterie di nuova generazione, per l’auto elettrica a più basso costo. La Commissione europea sta provando a rispondere a questa sfida in un modo che, tuttavia, danneggerà il nostro paese. È stata infatti proposta la liberalizzazione degli aiuti di Stato dei singoli paesi dell’Unione per le imprese che investono in nuove attività sostenibili, invece di adottare un meccanismo comune di finanziamento ed indebitamento, come è stato fatto, con il Next Generation eu, per uscire dalla recessione causata dal COVID. 

Il risultato concreto sarà che gli Stati europei, con minore debito pubblico, come Germania, Francia, Olanda e altri paesi nordici, potranno investire massicciamente nella transizione ecologica ed energetica, mentre l’Italia, con il suo altissimo debito pubblico, al 146% del PIL, resterà a guardare, potendo contare solo sui 36 miliardi del vecchio PNRR, per lo sviluppo sostenibile. 

Il problema riguarda assai da vicino anche l’Umbria che, in una  recente classifica della Fondazione italiana per lo sviluppo sostenibile, è classificata all’ultimo posto, fra le regioni italiane nella corsa alla decarbonizzazione per la neutralità climatica. Sappiamo bene, guardando ai problemi  economici da Terni, quanto sia in ritardo ed in affanno l’economia regionale umbra e quanto allarmanti siano i dati sull’invecchiamento della popolazione, la fuga di troppi giovani con alte competenze, la dipendenza dell’economia e della società umbra dai trasferimenti esterni, la disoccupazione ed il lavoro precario, la mancata crescita della produttività negli ultimi venti anni, la insufficiente spesa privata e pubblica  per la ricerca ed il basso numero di brevetti depositati in Umbria, lo scarso numero di nuove imprese da “start up accademico”, nate in seno all’Università regionale. Solo la scelta strategica dello sviluppo sostenibile, con una transizione giusta e decisa verso la decarbonizzazione delle attività umane, può introdurre nel sistema regionale quei fattori d’innovazione, capaci di assicurare, nel medio termine, migliori livelli di benessere individuale e sociale, un ambiente sano a vivibile, sia per una migliore qualità della vita delle nostre comunità locali, sia come fattore moderno di attrazione per nuovi investimenti esterni volti a puntare sulla opportunità epocale del contrasto attivo e resiliente alla crisi climatica.

Giacomo Porrazzini

-Redazione-:
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