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I rimedi di una volta

Dopo la seconda Guerra Mondiale e la scoperta della penicillina, andare dal medico o chiamarlo per una visita a domicilio incominciò piano piano a prendere piede anche nelle campagne.

Prima di allora se ne faceva a meno nella stragrande maggioranza dei casi per una serie di ragioni, alcune anche di carattere pratico, altre dovute a ignoranza e a scarsa fiducia nella professione. Il medico condotto come l’ostetrica condotta, pagati dal Comune, abitavano nei grossi centri urbani che venivano faticosamente raggiunti a dorso d’asina o col carro con le vacche, solo in occasione di grandi fiere di merci e bestiame. Doverci andare appositamente poter usufruire della visita del sanitario voleva dire sprecare un sacco di tempo.

La filosofia contadina partiva poi dal presupposto che tutto si aggiusti con il tempo e che alla morte non ci sia scampo. Tutto ciò traeva origine dal vivere a contatto continuo con gli animali. Quando un animale si ammalava, veniva chiamato il contadino più “esperto”, in genere anche il più vecchio, che aveva fatto tesoro delle passate esperienze e che aveva imparato alcune pratiche da un altro, passato a miglior vita.

Se una vacca, per esempio, smetteva di ruminare, bisognava farle masticare una pianta grassa simile di forma alla rosa del deserto, che ogni allevatore si premurava di coltivare tra un sasso e l’altro di un muro a secco. Se un coniglio mostrava di essere affetto da rogna e si spellava a furia di grattarsi, il rimedio consisteva nell’ungere la parte con olio di oliva, per poi spolverarci sopra un congruo quantitativo di zolfo. Anche per le persone c’era sempre nella zona “l’esperto” di erbe che consigliava infusi con la gramigna, nel caso di disturbi intestinali, o l’acqua di malva, come lenitivo di varie affezioni, dall’ascesso dentario alle bronchiti, dalle afte alle infezioni delle vie urinarie, come le cistiti.

Alcuni rimedi venivano tramandati da madre a figlia, come la preparazione di un infuso per lenire e guarire le scottature. A fine estate, nel mese di settembre, si raccoglievano certi fiorellini gialli che venivano messi in una piccola bottiglia, riempita poi di olio d’oliva. Dopo alcuni giorni, questo infuso era pronto per l’uso e veniva riposto nel ripiano più alto della credenza.

Quando qualcuno si procurava una ferita da taglio con una falce, veniva considerato opportuno urinarci sopra per disinfettarla. Se in qualche caso si infettava, formando pus, si riteneva “una mano santa” coprirla con un paio di foglie di rovo comune, tenute insieme da una sommaria fasciatura. Erano tutti arciconvinti che tali foglie riuscissero a estrarre il pus, facilitando una rapida guarigione. Se a qualcuno prendeva ’n corbu, la maledizione popolare più usata – te pozza pija’ ‘n corbu – ovvero un colpo apoplettico o ictus, il rimedio dei rimedi consisteva nell’applicazione cutanea delle mignatte o sanguisughe.

La mignatta è una specie di verme avente bocca circolare a ventosa, provvista di dentelli calcarei. Vive nelle acque dolci e si attacca al corpo di un vertebrato, in genere mammifero, ne incide la cute e si nutre del suo sangue. Per fare questo senza difficoltà, le sanguisughe iniettano nella ferita un potente anticoagulante (irudinina), secreto dalle ghiandole salivari, che impedisce al sangue della vittima di coagularsi. Secondo alcuni, secernono anche un anestetico per impedire alla vittima di provare dolore, cosicché possono nutrirsi indisturbate. Resistono a lunghi periodi di digiuno (fino a un anno). Nella tradizione popolare servivano a togliere il sangue cattivo effettuando un salasso, favorendo il miglioramento delle condizioni del paziente.

Un’altra patologia della quale soffrivano quasi tutti i contadini era la secchezza delle mani callose, perché non c’erano guanti da lavoro. Specialmente d’inverno, durante la raccolta delle olive, sulla pianta e a terra, anche a causa della tramontana, l’epidermide disidratata si spaccava fino a sanguinare. Usare l’olio d’oliva per ammorbidire e proteggere la pelle sembrava a tutti un sacrilegio. Guai a sprecarne una goccia per un uso diverso da quello alimentare! Il rimedio dei rimedi era quello di strofinare le mani con l’omento di castrato (inservibile per altri usi, fuorché per la fabbricazione del sapone) che formava una patina di grasso dall’effetto emolliente e in più impediva l’evaporazione dell’acqua, favorendo l’idratazione. Tale grasso si usava anche per ungere gli scarponi, dopo averli lavati e fatti asciugare accanto al fuoco, in modo da rendere il cuoio morbido e impermeabile all’acqua.

Quando una giovenca veniva addestrata a tirare l’aratro, l’attrito del giogo di legno sul collo poteva provocare infiammazione e gonfiore. Allora si ricorreva a massaggi ripetuti con lo stesso grasso, finché la pelle del collo non induriva, formando una estesa zona callosa. Certo l’odore del grasso anche un po’ rancido non era molto piacevole, ma sicuramente era molto meno “intenso” dell’odore che si sprigionava dal letame fresco, trasportato con la carretta a mano sul letamaio, prima di rifare la lettiera alle vacche o ai maiali, con paglia pulita, crepitante e dal profumo di fieno.

Vittorio Grechi

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