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SULLE TRACCE DEL FRATELLINO

Ibrahima cresce in un villaggio della Guinea, lascia presto la scuola per aiutare il padre, che vende pantofole in un angolo di strada della capitale e che gli insegna l’educazione a colpi di cinta sulla schiena.
Una notte il padre smette di respirare, il figlio corre in strada, chiede aiuto, arriva uno zio e gli dice di tornare al villaggio, anche se ha solo 13 anni adesso è lui il capofamiglia. In casa ci sono due sorelline e un fratellino di 12 anni che ripete che vuole andare via. Ibrahima è responsabile della sua educazione, lo dovrebbe colpire sulla schiena con la cinta, ma preferisce parlarci.

“Cosa vuoi fare?”

“Voglio lavorare, portami con te, Ibrahima”.

“No, tu devi restare qui con le sorelle e la mamma”.

Lascia il fratellino ad accudire la capra e sale su un bus diretto in Liberia, “non sapevo bene dove si trovasse, l’ho scelta perché mi piaceva il nome: Liberia!”. Là conosce un camionista, impara a guidare, vuole diventare meccanico, poi una sera la mamma gli comunica al telefono che il fratellino è fuggito di casa.
Dopo un mese di ricerche, Ibrahima viene a sapere che si trova in Libia. “Anche se a mamma indico la Libia su una cartina, mi dice ok, ma non si rende conto, non capisce queste cose, non è mai uscita dal villaggio”.

Ibrahima affronta il lungo viaggio nel deserto, viene sequestrato dai passatori che gli prendono quasi tutti i soldi, arriva in Libia e la prima persona che incontra è un bambino che gli dice “taf-taf-taf, un giorno vi ammazzeremo tutti”. Viene rinchiuso in una prigione nel deserto, ma una notte riesce miracolosamente a fuggire e va in Algeria.

In Libia tutti gli arabi sono belli, hanno la pelle chiara, ma il loro cuore è una caverna oscura. E il kalashnikov è il loro corpo. È lo stesso che sia un ragazzo o una ragazza, un vecchio o un bambino, tutti pensano taf-taf-taf”. Ritorna in Libia, non vuole imbarcarsi, ha sentito brutte storie sulle traversate, vuole solo trovare il fratellino e impedirgli di partire. Un uomo gli racconta di un naufragio, guarda la foto del fratellino, lo riconosce “sì, era sul quel gommone”.

Ibrahima telefona alla mamma, non trova le parole resta in silenzio e lei capisce, comincia a piangere, cade la linea, non la richiama. Rimane seduto su una sedia a fumare per settimane, forse mesi, non ricorda.
Ibrahima è impazzito” dicono tutti, ma pazzo è solo uno che non riesce a fare niente e si domanda perché non è morto. “Avresti bisogno di un po’ d’amore”, gli dice un amico, “non ora, non ci riuscirei” gli risponde.
Ibrahima è solo nella foresta, non quella con gli alberi e gli animali, si dice che sei nella foresta “quando lo spirito inizia a girovagare e quando se ne va è difficile farlo tornare”.

Dopo quella volta non ha più sentito la madre. Sono passati anni, ma non ha ancora trovato il coraggio di telefonarle, di dirle che ce l’ha fatta, che ora lavora in un’officina a Madrid, “devo prima aggiustare quello che ho dentro”.

Antia ha aiutato Ibrahima Balde a raccontare la sua storia, il libro si intitola Fratellino (Feltrinelli 2024).

Francesco Patrizi

 

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