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L’impresa della trebbia e i racconti

Negli anni compresi fra il 1950 e il 1960 un paio di famiglie contadine con a capo anziani e autorevoli genitori decisero di mettersi insieme e di entrare in una attività industriale legata sempre all’agricoltura. A dir la verità furono i figli più grandi a chiedere a gran voce ai rispettivi genitori l’acquisto di macchinari completi ma di seconda mano per provare ad entrare nel campo della trebbiatura del grano. Per saperne di più e meglio di come si mieteva e trebbiava il grano in quegli anni basta andare all’Archivio de La Pagina, cercare nel numero di giugno 2013 pag. 15 l’articolo La mietitura e nel numero di settembre 2013 pag. 14 l’articolo La trebbiatura.

Dopo molti incontri, incertezze e timori, fu presa la grande decisione. Entrambi i genitori diventarono soci e acquistarono una trebbia piccola e vecchia ma in buone condizioni, un trattore tedesco Lanz del periodo anteguerra con ruote di ferro e a testa calda e un rimorchio per trasportare i fusti del gasolio. Dopo questi e altri preparativi i figli iniziarono a giugno nella pianura ternana di Maratta a cercare grano da trebbiare per poi salire piano piano fino ad arrivare a settembre sui colli di Leonessa, Ruscio, Gavelli, Poggiodomo, dove il grano seminato in collina si mieteva più tardi.

Finito di trebbiare tornavano a casa e avevano storie nuove da raccontare la sera davanti al camino. Non c’era ancora la televisione e anche la radio scarseggiava nelle case contadine di allora, per cui passare dai racconti delle due guerre mondiali a quelli più recenti era una novità.

Si parlava anche degli amori che nascevano tra le ragazze contadine e quelli che, occupandosi di far funzionare tutti quei macchinari, erano visti quasi come Dei. Le mamme del posto vigilavano per impedire baci e abbracci furtivi dietro i pagliai e al racconto dei pianti di una donna che diceva: “Pora fija mia che me l’au renceppetellata n’antra vota” [povera figlia mia che me l’hanno renceppetellata un’altra volta], tutti gli ascoltatori pensarono che quella parola dialettale significasse che la ragazza in questione era stata ingravidata un’altra volta. Invece non era proprio così. Molti villaggi in quel periodo storico conservavano ancora costumi che, provenendo dalla Sicilia greco-romana, si erano poi espansi fino al Canton Ticino con quasi analoghe modalità. Alcuni di questi costumi riguardavano anche e soprattutto le pratiche e i rituali di nozze: in uno di questi era consuetudine che un giovane pretendente lasciasse sull’uscio della casa della fanciulla amata un grosso ceppo su cui venivano posti dei nastri colorati. La sera successiva il padre della ragazza andava nella bettola del paese e chiedeva chi fosse stato a mettere il ceppo.

Se un giovane si faceva avanti dicendo: “Gnéu”, cioè io, e se il ragazzo e la sua famiglia erano ben visti dal genitore, la proposta veniva accettata, il ceppo veniva portato in casa e l’affare matrimoniale poteva dirsi concluso. In caso contrario il ceppo veniva restituito. La promessa sposa che subiva tale usanza si definiva inceppata, termine usato anche per i rapporti sessuali. Nel dialetto di quel paese del reatino una ragazza inceppata due volte veniva detta renceppetellata.

Sul significato recondito del ceppo alcuni dicono che la donna veniva immaginata come “l’albero della vita”, la pianta umana che al posto di fiori e frutti genera figli che avvicendano le generazioni alle generazioni. Le piante in genere, e spesso le loro parti e le loro essenze, erano credute atte a conservare e a promuovere la fecondità muliebre ed erano impiegate come specifiche e adatte nelle pratiche magico-sessuali.

Da queste premesse non è difficile scorgere nel bouquet di fiori che la sposa si porta all’altare una sopravvivenza dell’antico culto delle piante; così come quando la sposa lancia, a caso, sul gruppo di ragazze nubili il bouquet di fiori, compie un atto di magia simpatica. Il simile produce il simile: infatti, colei che riuscirà a impossessarsene sarà candidata a imminenti nozze.

Vittorio Grechi

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