Nel numero di questo mese, voglio parlarvi di inclusione. Secondo il pensiero comune e la Treccani, si intende inclusività come la capacità di includere il maggior numero possibile di soggetti nel godimento di un diritto, nella partecipazione a un’attività o nell’esecuzione di un’azione; più in generale, si riferisce alla propensione ad essere accoglienti e a non discriminare, contrastando intolleranza, pregiudizi, razzismo e stereotipi.
Questa definizione si applica anche al tema della disabilità, poiché, soprattutto negli ultimi anni, si cerca sempre di più di inserire le persone con disabilità nella società. Almeno questa è la promessa che ci viene fatta, a seguito delle lotte quotidiane portate avanti da attivisti e enti preposti. Tuttavia, nonostante i progressi, la strada verso una vera inclusione è ancora lunga. Infatti, a livello nazionale, la comunità disabile è ancora profondamente emarginata. Questa esclusione avviene in molti ambiti, come quello lavorativo, politico, sociale, ma anche in contesti più intimi, come le relazioni e la sfera sessuale.
Ciò accade perché l’abilismo radicato nella nostra società impedisce il superamento di pregiudizi e stereotipi, ostacolando il riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità. Un esempio concreto: ci sono ancora troppi negozi, ristoranti e attività commerciali che non abbattano le barriere architettoniche, negando di fatto l’accesso a chi è in sedia a rotelle. Purtroppo, oggi il mondo non è ancora pronto per accoglierci. Proprio come per altri temi culturali, l’inclusione e le pari opportunità vanno affrontate più volte, poiché è difficile estirpare convinzioni e ideologie secolari.
Personalmente, credo che il termine “inclusione” possa risultare a volte stridente, poiché le persone disabili sono sempre esistite e rappresentano una parte consistente della popolazione. È arrivato il momento, a mio parere, di investire seriamente nelle nostre capacità e riconoscere il nostro potenziale. Se c’è una parola che preferisco rispetto a “inclusione”, è “affermazione di sé”. Chiediamo di essere visti, considerati per ciò che siamo e per ciò che sappiamo fare, al di là della nostra condizione fisica o intellettiva. Inoltre, credo che il miglior modo per farlo sia, nei tempi e nei modi più adatti a ciascuno, inserire le persone con disabilità in contesti comuni, come gruppi di aggregazione giovanile, che possano stimolarci e invogliarci a partecipare. A volte, creare situazioni ad hoc può risultare più ghettizzante, separandoci dai nostri coetanei e accentuando la divisione tra “noi” e “loro”.
Elisa Romanelli
