GREENWASHING quando “ambiente” fa rima con “speculazione”

Le aziende impegnate nel greenwashing solitamente esagerano il loro essere “sostenibili”, e nel tentativo di fare “bella figura” inducono i potenziali clienti a credere che un determinato marchio sia molto più impegnato nella tutela dell’ambiente di quanto non lo sia in realtà. Ad esempio, affermano che la confezione di una specifica linea di prodotti proviene da materiali 100% riciclati, quando non è completamente così o che le sedi di uno stabilimento sono state progettate per garantire “zero emissioni”, affermazione quanto mai discutibile nella realtà dei fatti. 

Una ricerca del 2021 del Sustainability Management della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha evidenziato come, su 1.300 annunci pubblicitari analizzati, ben l’83% fosse in realtà tacciabile di greenwashing per l’inconsistenza del beneficio ambientale decantato. Va comunque evidenziato che però spesso si tratta di azioni intraprese pensando davvero di fare del bene, ma che poi non si concretizzano in risultati e dati veramente significativi.

Il termine, chiaramente di matrice anglosassone, è un gioco di parole che deriva da “whitewashing”, si rifà infatti al mondo cinematografico quando venivano impiegati solo attori caucasici anche nei ruoli di personaggi di altre etnie. L’espressione specifica viene fatta poi risalire agli anni ’60, quando l’industria alberghiera ha promosso i primi avvisi nelle camere d’albergo per chiedere agli ospiti di riutilizzare gli asciugamani, a salvaguardia dell’ambiente.
In quel momento storico, l’obiettivo degli hotel era semplicemente quello di beneficiare di minori costi di lavanderia, al contrario di oggi, quando può essere considerata una prassi di fruizione consapevole, tanto che poi molte strutture consentono agli avventori di devolvere in beneficienza il risparmio legato a questa operazione. Di esempi di finta sostenibilità ambientale ve ne sono moltissimi, in particolar modo a partire dagli anni ’80, e i più noti coinvolgono grandi colossi come Chevron, Coca Cola, H&M, e molti altri, ma le misure per contrastare questa prassi risalgono ad anni più recenti. La Federal Trade Commission negli Stati Uniti è stato il primo ente a stilare, nel 2010, delle linee guida per l’utilizzo dei cosiddetti environmental marketing claims. L’obiettivo era imporre alle aziende chiarezza e trasparenza, non solo nel definire entità e portata del proprio impegno ma anche, per esempio, nelle scelte di stile e di linguaggio. 

La Federal Trade Commission negli Stati Uniti è stato il primo ente a stilare, nel 2010, delle linee guida per l’utilizzo dei cosiddetti environmental marketing claims.

Dal 2020 l’Europa è al lavoro su un elenco di linee guida stringenti, avviato con l’adozione della Tassonomia UE, approvata dal Parlamento europeo, che serve a definire quale sia davvero “un’attività economica sostenibile dal punto di vista ambientale”. L’impegno per combattere l’ambientalismo di facciata si fa sempre più concreto. Le nuove regole UE, infatti, si propongono di proteggere maggiormente i consumatori che si trovano di fronte all’uso di etichette di sostenibilità poco trasparenti e poco credibili, a scapito delle aziende che offrono prodotti veramente sostenibili e che attualmente sono svantaggiate rispetto a quelle che non si muovono in questa direzione. Peraltro, arriva sempre dalla Commissione europea, la più recente proposta di legge sul diritto alla riparazione da estendere anche oltre il periodo di garanzia per tutti gli apparecchi elettronici, in modo da limitare l’impatto ambientale e soprattutto contrastare l’obsolescenza programmata.

Come comportarsi per non incorrere nel greenwashing? Il primo passo è quello di promuovere solo casi certificati in modo oggettivo e riconosciuti, evitando invece di fare affidamento o di abusare di termini generici come “naturale”, parola fin troppo in voga. Sono poi da rifuggire le affermazioni assolute, come “zero emissioni”, obiettivo praticamente impossibile da raggiungere per qualsiasi tipo di prodotto o servizio.

Alessia Melasecche
alessia.melasecche@libero.it

 

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