Chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi?

Corre l’anno 2021, è il 12 marzo per la precisione, al centro vaccinazioni di Fiumicino, quando il premier Mario Draghi, dopo aver parlato di “smart working” e “baby sitting”, smettendo di leggere quanto preparato, alzando lo sguardo dal testo, ha pronunciato la fatidica domanda. Quesito spontaneo, esposto ad alta voce in difesa della nostra bellissima lingua, ma la cui risposta, va ben oltre le questioni meramente linguistiche. Purtroppo, infatti, non è solo necessariamente per poca attenzione all’italiano e neppure per darci un tono che usiamo tutte queste parole straniere. La verità è che le altre nazioni importano dalla nazione più all’avanguardia le attività e le innovazioni, e insieme a queste, anche la terminologia. In siffatto modo, la nazione all’avanguardia diffonde e fa conoscere anche la sua lingua nel mondo dato che nomina sunt consequentia rerum, ovvero i nomi sono conseguenza delle cose, citando Dante che a sua volta si rifà a Giustiniano.

Dopo la II Guerra Mondiale, gli Stati Uniti d’America si sono imposti tra le nazioni più sviluppate dal punto di vista scientifico e tecnologico. In questi due campi la lingua di riferimento è l’inglese e questo è evidente, per citarne alcuni, nel settore dell’informatica e dei computer (mouse, scanner, modem, file, etc.) o dei trasporti aerei (terminal, jumbo, jet, etc.). Di esempi se ne possono fare a bizzeffe. Ad esempio, Internet: letteralmente vuole dire “rete di reti” perché collegava tra loro reti diverse, ma in italiano è rimasto Internet. Venti anni più tardi arrivava il “world wide web”, che ci siamo ben guardati dal tradurre con “la grande ragnatela mondiale”. Che dire dello smartphone? Inopportuno chiamarlo “telefono intelligente”.

Se ad essere intelligente è l’apparecchio che dire di chi lo utilizza? Non proprio un riconoscimento al merito dell’intelligenza umana. La startup, non è “l’inizio di qualcosa”, ma una nuova impresa che presenta una forte dose di innovazione e che è configurata per crescere in modo rapido.

Come lo vogliamo dire in italiano? Startup, è facile e chiaro nell’identificare un fenomeno specifico, e per fortuna, sempre più ricorrente anche nel nostro Paese.

Non solo l’inglese per la verità. Nel settore della moda e della cucina è molto presente la terminologia francese, perché la Francia vanta, nel settore, una certa fama. Ecco come si spiega il fatto che quando parliamo di moda e di bellezza (tailleur, foulard, collants, boutique, eau de toilette, etc.) o di cucina (champagne, omelette, chef, menu, dessert, brioche, etc.) è facile incontrare parole francesi.

D’altra parte, gli inglesi e gli americani non sono in alcun modo turbati dal dover ordinare pasta e pizza, o dal chiedere un tiramisù al ristorante, ovviamente chiamarlo con il nome giusto non implica che anche il sapore lo sia! Non c’è solo la cucina ovviamente dalla nostra: il teatro, la musica classica e l’opera sono caratterizzati da moltissime parole italiane a cominciare dal “bravo” con cui il pubblico saluta gli interpreti o “maestro” e lo stesso per l’architettura (belvedere, chiaroscuro, etc.).

Insomma, volendo provare a dare una risposta costruttiva, dovremmo dire: tutte queste parole straniere si riferiscono a “cose” che non abbiamo inventato noi, le abbiamo adottate, denominazioni comprese.

Alessia Melasecche
alessia.melasecche@libero.it

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