Ai miei tempi!

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Avrei voluto parlarvi del covid e delle vaccinazioni, del cambiamento del clima e quindi del caldo afoso, degli incendi e delle alluvioni. Avrei desiderato soprattutto trattare i tragici avvenimenti in Afghanistan. Ma lascio agli esperti questi enormi argomenti del resto ampiamente trattati sui social spesso con aspri contrasti e dissonanze di opinioni.

Così ho deciso di parlare di una piccola cosa che riguarda la nostra città che, come succede ormai per tante altre questioni, ha scatenato critiche, fazioni, divergenze che rasentano il conflitto.

Parlo del concerto tenuto all’anfiteatro di Terni il 29 agosto del cantante Sangiovanni, nome d’arte di Giovanni Pietro Damian, il giovane che a maggio 2021 ha raggiunto la finale nella trasmissione Amici, trionfando nella categoria cantanti e piazzandosi secondo nella classifica generale. Seguitissimo e amato dai giovani, vanta oltre un milione e mezzo di follower solo su Instagram.

L’evento è stato organizzato dal Comune e i biglietti sono andati sold out in appena un’ora.

Le polemiche più aspre si sono scatenate in merito al budget del Comune (troppo alto rispetto agli incassi previsti), al costo del biglietto (troppo esoso per i giovani e per le famiglie e definito per questo “assurdo”), alla possibilità di favorire l’accesso a tutti, forse in barba ai problemi di assembramento che si sarebbero creati. Critiche amare sono venute da parte di quelle associazioni che da anni si barcamenano per trovare i finanziamenti per concerti, festival e manifestazioni musicali di valore da fare a Terni, talvolta rese possibili solo grazie a sacrifici e al volontariato di chi le organizza.

In merito alla questione finanziaria non entro nel merito se non per ricordare che i personaggi famosi, di qualsiasi categoria, si pagano proprio perché hanno la capacità di richiamare l’attenzione e coinvolgere più pubblico. Meno che mai mi esprimo sulle scelte operate dal Comune.

La questione su cui vorrei invece soffermarmi è un’altra. Sui social ho letto critiche molto discutibili che suonano più o meno così: “ma questa vi pare cultura?”; “ma si può far fare un concerto a un ragazzo stonato”; “ma si possono ascoltare canzoni così sciocche, melense, senza un contenuto e prive di musicalità?”

Non è la prima volta che la scelta di tenere certi concerti è considerata controversa. Ricordo quelli di Vasco Rossi del 1987 nella zona di Cospea (famoso per la sassaiola con cui si concluse) e quello allo stadio nel 2005. Altri artisti di indiscutibile levatura culturale, quando si sono esibiti a Terni, non hanno avuto quell’attenzione o accoglienza che avrebbero meritato, nonostante la buona volontà degli organizzatori: ad esempio i Porcupine Tree (2001) e gli Afterhours (2004) hanno dovuto esibirsi all’interno di due squallidi parcheggi; i King Crimson si rifiutarono di esibirsi a Villalago; Peter Hammill ha suonato due volte a Terni, nel 2001 e nel 2017 (la registrazione di questo concerto è pure finita in un “live” ufficiale) eppure il pubblico era composto in buona parte da non ternani. Insomma, non è facile individuare criteri oggettivi a cui appellarsi per giudicare queste scelte.

Penso solo che ognuno abbia i propri gusti musicali. Io, pur lontanissima da tutta la musica attuale, capisco i giovani perché vedo ripetersi quello che successe “ai miei tempi” quando i miei genitori si scandalizzarono perché mi entusiasmai quando al Festival di Sanremo Celentano si presentò con “24000 baci”, che fu una rottura rispetto alle canzoni di Claudio Villa, Nilla Pizzi ecc.

Ognuno fa le sue scelte: chi ama l’opera, chi il jazz, chi il rock; altri amano i film, o il teatro o le trasmissioni televisive considerate commerciali; altri ancora le mostre d’arte e gli artisti di strada. Chi pratica sport, chi legge libri, chi dipinge, chi scrive poesie e romanzi. Tutte attività e passioni di pari dignità.

Se vogliamo scomodare la parola cultura -una parola grossa usata spesso a sproposito- ricordiamoci però che la musica è cultura, non solo quella classica e paludata, ma tutta, dal rock, alla techno, al rap: sono linguaggi, emozioni, suoni e ritmi in cui i giovani di ogni generazione si riconoscono, si relazionano e cercano di costruire una propria identità, nuova o comunque diversa da quelle dei genitori.

“Ai miei tempi” è un’espressione nostalgica e obsoleta, pretestuosa e limitante: essa nasconde un giudizio negativo sul presente e un elogio del passato. Ambedue, passato e presente, vanno confrontati sì, sviscerati nei loro aspetti negativi e positivi, ma vanno capiti, senza acredine, senza presunzione, senza quel poco e tanto di livore che spesso gli anziani e i vecchi ci mettono davanti a qualsiasi manifestazione attuale.

Buon ascolto!

Loretta Santini

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